
Cosa fare per ridurre gli effetti della fast fashion
Anche investire i propri risparmi consapevolmente può rendere la moda più sostenibile
L’espressione “fast fashion” (moda veloce) ha cominciato a circolare negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta. Indicava appunto un tipo di produzione industriale “veloce”, in cui dalla progettazione dello stilista all’arrivo dei capi nei negozi passavano poche settimane. L’idea alla base di questa modalità produttiva è che le collezioni siano sempre allineate ai gusti e agli stili delle persone. Che siano sempre “alla moda”. Per molto tempo la “fast fashion” è stata considerata un processo di democratizzazione del settore, un fenomeno economico che ha permesso a tutti di vestirsi bene seguendo le ultime tendenze. Negli ultimi decenni, soprattutto nelle generazioni più giovani, è però maturata la consapevolezza che si tratti di produzioni spesso poco sostenibili.
Gli abiti così prodotti sono infatti spesso di scarsa qualità e legati appunto ai gusti del momento, che cambiano velocemente. Vengono indossati molto meno e si deteriorano più in fretta, e quindi vengono buttati in grande quantità. Solo per fare un esempio, nella grande discarica abusiva a cielo aperto di Alto Hospicio, nel nord del Cile, finisce la fast fashion di mezzo mondo: ogni anno si accumulano decine di migliaia di tonnellate di magliette, camicie, jeans e indumenti di vario tipo usati, ma anche nuovi (invenduti della grande produzione) con evidenti conseguenze per l’ecosistema locale. Tra i maggiori esportatori di capi d’abbigliamento e fornitori delle grandi aziende di fast fashion ci sono Bangladesh, Cina, India e Vietnam, paesi inoltre tra i più vulnerabili ai fenomeni climatici estremi legati al riscaldamento globale, come le alluvioni. Non si tratta però solo di questioni ambientali: spesso le produzioni di fast fashion avvengono in paesi in cui il costo del lavoro è più basso e i diritti umani e dei lavoratori sono più a rischio.
Uno dei modi per contrastare l’impatto della fast fashion è banalmente quello di preferire capi di altri marchi, e che durano di più. Un altro modo è il cosiddetto riuso, che negli ultimi anni sta prendendo piede anche in Italia attraverso la diffusione di negozi che vendono abiti di seconda mano. La nuova sensibilità rispetto a questi temi ha dato vita anche ad alcune leggi o proposte di legge: in Francia, ad esempio, nel 2023 è stato introdotto un “bonus réparation” (“bonus rammendo”) per chi sceglie di far riparare un proprio indumento invece di buttarlo, mentre nel 2024 l’Assemblea nazionale ha approvato una proposta di legge che prevedeva l’imposizione di una tassa su vestiti e accessori fast fashion.
Anche le aziende produttrici hanno preso impegni per migliorare la sostenibilità dei processi, ma i progressi sono ancora lenti. Per cercare di limitare l’impatto sociale e ambientale della moda, e in particolare della fast fashion, è necessario infatti intervenire a monte, cioè sui processi di produzione, considerato anche che pratiche come il riuso restano comunque ancora marginali.
I consumatori hanno in questo senso uno strumento ulteriore per rendere le produzioni di moda più sostenibili sotto il profilo ambientale e sociale: scegliere di destinare i propri risparmi a fondi di investimento che concorrano a rendere meno impattanti i processi di produzione anche in questo settore. È quello che fa Etica Sgr, la società di gestione del risparmio del gruppo Banca Etica, che dalla sua fondazione propone esclusivamente investimenti etici, e che cerca di prestare la massima attenzione anche agli aspetti di responsabilità sociale e ambientale del settore della moda.
Etica Sgr è attenta a questi aspetti sia prima delle fasi di analisi e selezione delle aziende per i propri prodotti, sia dopo, quando dialoga con i management delle società in cui hanno investito i fondi, per spronarle ad adottare misure credibili per tracciare la propria catena di fornitura: secondo la società di gestione del risparmio è proprio da lì che emergono i rischi maggiori, sia dal punto di vista ambientale sia, soprattutto, da quello sociale.
Etica Sgr chiede a queste società di tracciare la filiera dei propri fornitori in modo che si possa facilmente risalire a chi effettua realmente la produzione, e agli intermediari, e verificare se tutti questi soggetti rispettano le regole di sostenibilità e i diritti umani e dei lavoratori stabiliti dai criteri etici del fondo comune di investimento. Oltre alla componente sociale, un aspetto decisivo in questo processo è l’impegno delle aziende verso una transizione energetica di tutto il processo di trasformazione delle fibre in indumenti: si tratta della componente più impattante all’interno di una delle industrie che hanno un maggior impatto ambientale a livello globale.
Etica SGR propone esclusivamente fondi comuni etici e responsabili che investono in aziende e Stati attenti dal punto di vista ambientale, sociale e di governance (i cosiddetti criteri ESG) con uno sguardo più a lungo termine. Le aziende, quindi, quelle della moda come quelle degli altri settori, oltre che sui criteri di sostenibilità ambientale vengono valutate in base al rispetto dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori, al rapporto che hanno con i propri dipendenti e con gli abitanti delle aree in cui operano, ma anche in base al rispetto dei regimi fiscali, agli stipendi dei dirigenti, alla presenza di corruzione, al coinvolgimento in episodi di gravi controversie e al processo di nomina degli amministratori. I fondi comuni di Etica SGR sono rivolti sia a risparmiatori privati, attraverso una rete di collocatori autorizzati, sia a investitori istituzionali (come ad esempio banche, compagnie di assicurazione, fondi pensione, casse di previdenza e amministrazioni locali).
Questa è una comunicazione scritta dal Post e sponsorizzata da Etica SGR. Prima di investire denaro è importante informarsi in modo approfondito: sul sito www.eticasgr.com sono disponibili i KID (Key Information Document) e i prospetti informativi dei conti.